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JE SUIS ERRI DE LUCA. JE SUIS NO TAV

ERRI DE LUCA A PROCESSO PER AVER ESPRESSO SOSTEGNO ALLA CAUSA DEI NO TAV

Il 16 marzo inizierà a Torino il processo a carico di Erri De Luca, colpevole per l’accusa di aver detto che l’assurdo progetto per la linea veloce Torino-Lione va giustamente boicottato. Questo avviene in un mondo in cui ci si riempe la bocca in continuazione per accusare di violazioni dei diritti fondamentali. Questo avviene in un paese in cui puoi commettere reati di ogni genere, anche molto gravi, ma scontano le pene (ridotte) solo i poveri figli ed amici di nessuno.

In un contesto di indignazione generale, non sembra aver destato tanto scalpore quanto accaduto allo scrittore napoletano, che rischia di essere condannato per istigazione a delinquere per aver utilizzato la parola “sabotare”, parola della quale lo stesso scrittore rivendica un significato poliedrico: “Rivendico il diritto di adoperare il verbo sabotare come pare e piace alla lingua italiana. Il suo impiego non è ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri in questo caso”. E’ esteso per esempio a “uno sciopero” o a “un ordine eseguito male” o un “ostruzionismo parlamentare”.

Lo stesso Erri De Luca ha cercato di spiegare la logica della questione in un pamphlet, denominato “La parola contraria“ ed edito da Feltrinelli, in cui commenta il caso giudiziario che lo vede coinvolto per le sue dichiarazioni sulla lotta No Tav in Valsusa.

Così, nell’imminenza del processo, con “La parola contraria” Erri De Luca ripropone l’eterno dibattito sui confini della libertà d’opinione, sul discrimine tra legalità e protesta politica, sul rapporto tra intellettuali e movimenti. “Se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori dal suo controllo”, scrive De Luca, che nelle pagine del pamphlet mette in discussione il concetto stesso di “istigazione” alla base del reato che lo vede imputato, e che prevede pene da uno a cinque anni di reclusione. E anzi confessa l’aspirazione ad accomunarsi a George Orwell, che con il suo “Omaggio alla Catalogna” sugli anarchici nella guerra di Spagna “mi ha spostato la direzione della vita”. Questa è “l’istigazione alla quale aspiro”, nei confronti di una lotta, quella dei No Tav in Valsusa, “diffamata e repressa”. E nel contempo sfida i pm di Torino, Andrea Padalino e Antonio Rinaudo, a dimostrare un nesso causale tre le sue dichiarazioni e concreti episodi di danneggiamento. Una petizione politica più che giuridica, dato che secondo il codice penale la contestazione dell’istigazione a delinquere non richiede che qualcuno sia poi passato effettivamente all’azione. “Se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori dal suo controllo”, “Dopo la fabbricazione dei fazzoletti di carta le persone si sono soffiate il naso. E prima?”, ironizza De Luca “Se avessi inteso il verbo sabotare in senso di danneggiamento materiale, dopo averlo detto sarei andato a farlo”. Nell’aula del tribunale di Torino “non sarà in discussione la libertà di parola”, conclude. “Quella ossequiosa è sempre libera e gradita. Sarà in discussione la libertà di parola contraria, incriminata per questo”.

Le frasi incriminate risalgono a un’intervista all’Huffington Post del 2013, a cui il procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli aveva replicato puntando il dito contro gli intellettuali che “sottovalutano pericolosamente l’allarme terrorismo” in Valsusa. Lo scrittore napoletano, già capo del servizio d’ordine di Lotta continua a Roma fino al 1976, replicava al procuratore senza mezzi termini e affermando che “La Tav va sabotata” ed  “Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo” (chiaro riferimento ai ragazzi arrestati il giorno prima con molotov e cesoie in auto) e alla domanda sulla liceità di “sabotaggi e vandalismi”, lo scrittore rispondeva che “Sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile” e ancora che “Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa”. Automatica conseguenza di queste dichiarazioni furono le immediate denunce, nel settembre 2013, da parte della società italo-francese che gestisce l’opera, la ltf, a firma del direttore generale Marco Rettighieri.

Lo stesso Caselli ha successivamente affermato, su Il Fatto Quotidiano del 27 dicembre e una volta in pensione, che “le spregiudicate teorizzazioni secondo le quali i reati di sabotaggio contro il cantiere Tav di Chiomonte non sarebbero da condannare, ma anzi giustificabili e persino encomiabili, non sono in alcun modo accettabili”. Perché “tutti i reati sono da condannare”, a meno di non “piegarsi all’idea terribilmente berlusconiana di una giustizia à la carte“. Per concludere con la “storia dei compagni che sbagliano abbiamo già dato negli anni Settanta”.

Il 28 gennaio 2015 doveva tenersi la prima udienza, poi rinviata al 16 marzo, di un processo che è stato definito da molti, in maniera non troppo azzardata, come un processo contro la libertà di parola. Per molti blogger si tratta di questo, si tratta di violazione della libertà di pensiero, di opinione, di espressione di un dissenso su una scelta calata dall’alto in modo autoritario e aldilà di ogni umana comprensibilità. Per i giornali mainstream invece il caso è marginale, serve per riempire la pagina o lo spazio di cronaca.

Il 28 gennaio davanti al tribunale sono comparsi una serie di cartelli che indicavano una parallelismo con la strage di Charlie Hebdo, e che riportavano la frase Je suis Errì. Perchè qui la questione concerne, più della semantica e della linguistica, l’utilizzo concreto e le tante sfumanture che Erri De Luca da al verbo sabotare.

je suis errìLa resistenza democratica all’oppressore e la giustezza e l’importanza di certe posizioni che riprendono a piene mani l’anti-violenza di Gandhi. La TAV va sabotata perché è stata imposta dall’alto e non è mai stata condivisa o accettata da nessuno, perché per essere costruita decine e decine di famiglie perderanno la casa, il lavoro, la terra. In mezzo ai tanti ragionamenti che ne conseguono c’è anche la libertà di un uomo di potersi esprimere liberamente senza rischiare di essere condannato ad una pena fino a 5 anni di prigione, per una frase che è la conclusione di un passaggio logico lineare e puntuale, che con l’istigazione di reato ha poco e niente a che fare, o forse rappresenta l’esatto contrario.

Non c’è un richiamo all’intervento armato, alla lotta, alla violenza; c’è il passivo subire. Il sabotaggio si fa bloccando, fermando, imponendo la propria presenza. Sabota anche chi, semplicemente, evita il regolare svolgimento di un’attività: chi si mette davanti alle macchine in strada; chi allarga le braccia e rimane fermo, immobile, davanti all’ingresso di un negozio. Chi non fa, non compra, non accetta, non vota.

L’inviato del settimanale Oggi, Mauro Suttora (lo stesso che fece quell’articolo del piffero sui portaborse, sul quale come potete leggere non provo rancore), qualche tempo fa scrisse un articolo sulla rinascita della val Bormida nell’alessandrino, dopo la chiusura della fabbrica Acna di Cengio che la inquinava. Negli anni ’80 la lotta ecologista dei cittadini della val Bormida fu la più importante d’Italia: blocchi del Giro d’Italia, incursioni al festival di Sanremo, ecc. Una vicenda finita bene, e possibile esempio per l’Ilva di Taranto.

La barista di un paesino rievocando le manifestazioni, racconta che i difensori dell’Acna insultavano lei e le altre ecologiste come “bagasce verdi”. Suttora riporta questo particolare. Lei dopo un anno, nonostante fosse stata inserita fra gli “eroi” dell’articolo e avesse lei stessa ricordato quel particolare folcloristico, lo querela per diffamazione. Il giornalista è stato assolto assolto con formula piena. Lo stesso Suttora a riguardo affermava, e mi trova perfettamente d’accordo, che “Di questa vicenda mi ha colpito la facilità con cui alcuni avvocati convincono gli intervistati dai media a sporgere querele temerarie, nella speranza di spillare risarcimenti da decine di migliaia di euro che, se accolti, distruggono economicamente giornali(sti) e siti web, ma soprattutto li intimidiscono per il futuro. In questo caso era un’innocua barista, ma sono soprattutto i politici e i potenti a usare quest’arma, che distrugge la libertà di opinione e di stampa”. L’aspetto più incredibile, però, è che la pm aveva chiesto per Suttora la pena di sei mesi di prigione.

Viva la libertà.

 

(foto tratte da google, alcuni commenti sono tratti da vari articoli sull’argomento di Mario Portanova, Januaria Piromallo e Gianmaria Tammaro)

 

 

 

 

 

 

 

 

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