DIARIO DI UNA MISSIONE IN TAJIKISTAN
C’è un detto che sostiene che se vuoi conoscere la cultura di un paese devi osservarne i mercati e le elezioni, ed io ho avuto l’opportunità di poter osservare entrambe le cose qui in Tajikistan.
In questo estratto di diario, proverò a mescolare le sensazioni personali da viaggiatore con le osservazioni tecniche da deputato in missione, sperando che il cocktail sia di vostro gradimento.
Per risalente abitudine da viaggiatore mi è sempre piaciuto tenere dei diari, in questo caso ripercorrono diversi momenti che non riporterò per intero, un po’ perché mi ci vorrebbe troppo tempo ad assemblarli bene e un po’ perchè potrebbe diventare noioso o esclusivo per gli appassionati di quella zona del mondo, quindi mi limiterò a raccontare qualche passaggio sul paese e sulle mie sensazioni. Per buona parte ho scritto in volo, all’aeroporto di Mosca e in quello di Istanbul, anche se il clic finale di pubblicazione lo sto inviando da Bruxelles, in ufficio e con il dovuto ritardo dovuto all’assenza di un momento libero.
Venerdì e sabato li abbiamo dedicati ai lunghi lavori preparatori nella capitale, svolti insieme ai delegati dell’OSCE/ODIHR e con la partecipazione dei leader di tutti i gruppi politici.
Grazie alla breve distanza però, abbiamo trovato anche il tempo per una veloce visita al grande mercato dì Dushanbe, e alla zona vicina all’hotel dove soggiornavamo, sufficiente per notare che la gente ha l’abitudine di incontrarsi e chiacchierare ai bordi di strade dissestate ove sfrecciano auto di ogni tipo ed epoca, che il caos è la normalità, ed attorno alla povertà assoluta si ergono dei lussuosi palazzi governativi circondati da sontuosi e curati giardini che dirigono su enormi boulevard. A dushanbe non c’è la cultura del bar o di qualche simile forma di locale pubblico dove incontrarsi, c’è il mercato ed il mercato è il centro commerciale e luogo di aggregazione sociale della città. Anche nei paesi e nei villaggi la situazione non muta, la gente si incontra e chiacchiera ai bordi delle strade e l’aggregatore sociale è il mercato.
In tajikistan le donne lavorano, pesantemente e forse anche più degli uomini, ho viste team di donne che pulivano le strade ai giardini, donne che trasportavano l’acqua dal fiume e folti gruppi di donne lavorare nei campi di cotone e di riso.
Dopo gli incontri sia di natura istituzionale che con la società civile per discutere della reale situazione del paese, la domenica, è arrivato il momento della tanto attesa missione elettorale, con partenza alle 5 di mattina e rientro intorno a mezzanotte appena concluse le operazioni di spoglio.
Tra i diversi team organizzati per coprire le differente aree del paese, io (insieme al collega rumeno Preda e croato Rados) ho scelto il temuto e sconsigliato distretto a sud del paese, al confine con l’Afghanistan, a circa 350 km dalla capitale Dushanbe dove abbiamo fatto tutti base. Il viaggio verso sud ci consentiva di fermarci dove ci pareva lungo la strada, facendo una tappa obbligata intermedia a Qurgonteppa e scegliendo dei seggi elettorali a caso lungo e fuori la via, così partendo dalla capitale, abbiamo potuto osservare lo svolgimento dei lavori in villaggi e città completamenti difformi tra loro dal punto di vista etnico e ambientale.
1. Contesto. La Repubblica del Tajikistan
Prima di fare qualsiasi considerazione personale è tanto opportuno quanto necessario disegnare il contesto geopolitico nel quale hanno avuto luogo le elezioni tajike;
Come avevo già raccontato in qualche post precedente, il Tajikistan è un paese che poggia su un equilibrio molto delicato tra il mondo sovietico e quello islamico, è il più povero dei paesi ex-URSS (40% della popolazione sotto la soglia di povertà) e si trova in una posizione geografica tanto vulnerabile quanto strategica, è un paese che si può considerare cuscinetto, militarmente rilevante per la tenuta di determinati equilibri, in un area geografica talmente depressa da essere battezzata da molti operatori come “in the middle of nowhere”, ossia nel bel mezzo del nulla, o in mezzo ad inespugnabili e suggestivi paesaggi di montagna che ci riportano nell’immaginario collettivo nei luoghi del film “Borat”.
Il delicato equilibrio è incrementato dalla paura collettiva della guerra o delle invasioni da sud, le vive ferite della guerra civile del 1992-1997, conflitto fratricida di natura etnica, sono facilmente constatabili nella memoria dei cittadini tajiki.
Il tajikistan è oggi soprattutto il frutto della cultura Persiana da un lato e di quella Sovietica dall’altro (si parla una sorta di Farsi, ma nelle città c’è ancora una forte influenza russa), è un paese che ha dovuto cedere all’Uzbekistan (da cui subisce continue pressioni per via della dipendenza energetica e l’inferiorità militare) le sue naturali capitali Samarcanda e Boukhari, ed è un paese in cui ultimamente si registra un certo sapore islamico ed una influenza cinese crescente.
Il Tajikistan dipende economicamente soprattutto dalla Russia, la gran parte delle entrate private arrivano dalle donazioni dei parenti che lavorano in Russia e Kazakistan (circa 1.7 milioni di tajiki).
Il territorio è prevalentemente montagnoso e molto difficilmente accessibile, le infrastrutture del tutto carenti, i servizi quasi inesistenti.
Soltanto il 7% della superficie del paese è arabile e si coltiva prevalentemente cotone, con un piccolo particolare: la gran parte delle grandi coltivazioni (così come anche per le miniere) sono in mano ai cinesi.
Il secondo settore produttivo è quello della lavorazione dell’alluminio, in stretta correlazione con l’Ucraina e Azerbaijan, ma che rende pochissimi profitti e si prende il 40% dell’energia del paese (l’elettricità in buona parte del paese è assente o arriva solo per qualche ora al giorno, e le temperature sono rigidissime).
Il rischio terrorismo è cosa concreta ed attuale in alcune zone del paese, il rischio attentati è sempre dietro l’angolo, l’Islam violento rappresenta una attrazione per tantissimi giovani senza lavoro e futuro e la dimostrazione sono i circa 300 foreign fighters arruolatisi con l’ISIS.
I controlli di polizia sono massicci e dispiegati un po’ ovunque, ed il governo, come in molti altri paesi dell’Asia centrale è facilmente corruttibile e direttamente coinvolto nel traffico di droga, specie con l’Afghanistan, che genera una grande porzione dell’economia informale tajika.
Il sistema sanitario, se così lo vogliamo considerare, fa acqua da tutte le parti, il cibo è scarso ed insicuro e vi è una crescita demografica tra le più alte del mondo, il 40% della popolazione ha meno di 15 anni, il 70% meno di 30 anni, questo trend preoccupa non poco il governo che non sarà minimamente in grado di poter reggere dal punto di vista occupazionale un tale incremento della popolazione.
2. Il presidente Rahmon e il “partito democratico del popolo”.
Non l’abbiamo incontrato ufficialmente ma l’ho visto passare in sfilata nel boulevard principale di Dushanbe, con un dispiegamento di auto e di forze che neanche per il g8 avevo visto, il Presidente Rahmon (che si è derussificato l’originario nome Rahmonov) è un vero e proprio “one man one country”, un autentico dittatore.
La forma di governo tajika è una autentica dittatura autarchica diretta dal 1994 ed ininterrottamente da Emomalii Rahmon con l’ausilio di parenti ed amici, che è stato rieletto presidente nel 2013 per altri 7 anni con l’83% dei voti. L’unica genuina candidata di opposizione (Onikhol Bobonazarova, che abbiamo incontrato), non ha potuto partecipare alle presidenziali per lo stop impostogli dalla commissione elettorale centrale, tutta composta da membri nominati dal partito del presidente (l’unico nominato dall’opposizione è stato arrestato), per via di una manciata di firme mancanti rispetto alle 210.000 previste.
Le gigantografie del presidente mentre si accinge a fare qualsiasi cosa (operaio, contadino, studente, sportivo, medico, papà ecc ecc) sono dispiegate massicciamente in tutto il paese, anche negli angoli più remoti e abbandonati, esattamente come avete sempre immaginato accadesse in una dittatura pura, basate sull’assoluto culto della persona e sulla repressione di qualsiasi forma di dissenso interno.
Qui criticare il presidente o il suo partito è sostanzialmente vietato e la gente lo sa e si guarda bene dal farlo.
3. Le relazioni internazionali. Politica estera
Abbiamo avuto la possibilità di incontrare il Ministro degli Esteri del paese, che si è intrattenuto con noi 6 eurodeputati in missione per circa 1 ora e mezza, ed ha risposto in maniera esaustiva a tutte le nostre domande e curiosità sulle relazioni esterne del Tajikistan.
Quel che emerso principalmente è che il Tajikistan adotta una politica estera “open-door”, dalle porte aperte insomma, chi mette i soldi è benvenuto, e poco importa se si alterano rapporti tra i diversi donatori ed investitori.
Andiamo con ordine, partendo dal primo partner strategico, il paese con cui c’è maggiore dipendenza economico-politica-sociale, ossia la Russia di Putin. Dal crollo dell’Unione Sovietica ad oggi la gran parte del sostegno finanziario e militare è arrivato proprio dalle ex mamma Russia, che ha svolto anche un ruolo diplomatico di primaria importanza nei negoziati di pace del 1997, ho già detto che la maggior parte delle entrate arrivano dai lavoratori tajiki in Russia e che il russo è ampiamente parlato nelle aree urbane. Il Tajikistan ha sottoscritto numerosi accordi bilaterali e multilaterali con la Russia e tra le altre cose nel territorio tajiko sono presenti 7000 militari russi, quindi il primo dispiegamento di forze armate numerico all’estero di fatto. Dalla Russia arrivano anche i rifornimenti energetici, un eventuale peggioramento della situazione Ucraina e la conseguente crisi economica può causare ripercussioni pesantissime nello stato tajiko.
Il primo investitore in Tajikistan è invece la confinante Cina, che finanzia numerosissime infrastrutture ma mette anche le mani sulle risorse del paese, tra i due stati sono in vigore numerosi accordi come lo Shanghai cooperation organization. Il governo di Pechino ha annunciato 6 miliardi di investimenti nel prossimo biennio, e così la dipendenza del paese si sposta sempre più da Mosca a oriente.
Per ragioni storico, linguistico e culturali sono buone le relazione con l’Iran, il governo di Teheran ha sempre dato supporto diplomatico e in tema di sicurezza.
I rapporti con il vicino e rassomigliante Kyrgyzstan sono sempre stati abbastanza cordiali, se non fosse che in alcune zone di confine non ben demarcate, scoppiano spesso conflitti violenti tra gruppi armati.
Molto problematiche sono invece le relazioni con l’Uzbekistan, dovute ad irrisolti problemi di confine, alla dipendenza energetica e alla distribuzione dell’acqua. Esemplificativa in tal senso è la annosa disputa sulla costruzione della diga di Rogun, il progetto di diga più alta del mondo che risolverebbe tutti i problemi energetici e di distribuzione dell’acqua del Tajikistan e a cui si oppone con forza il Governo di Tashkent, che ha anche minacciato interventi militari.
Con l’Afghanistan non vi sono rapporti diplomatici ma c’è un enorme paura che la situazione sfugga di mano, il confine meridionale rappresenta la più grande minaccia alla sicurezza del paese, una buona parte del confine, che scorre lungo il fiume Pani, è marcato da una recinzione militare per evitare le incursioni dei talebani, tuttavia esistono molti passaggi scoperti e il pericolo è sempre dietro l’angolo, specialmente da quando si registra la presenza dell’ISIS nel paese e da quando gli Stati Uniti/NATO hanno annunciato il ritiro delle truppe, si teme che una avanzata dei terroristi islamici possa mettere in ginocchio un paese già molto fragile. In Afghanistan vivono più tajiki che in Tajikistan stesso, e vi è il timore fondato che la zona di confine possa diventare l’ideale centro d’affari per i “signori della guerra”.
Infine, gli USA sono il maggiore donatore del paese e con l’Unione Europea è in vigore la PCA, partnership and cooperation agreement, in cui il tema dei diritti umani è posto al centro del sostegno finanziario, ma nonostante siano numerosi i progetti di sviluppo finanziati, i risultati sono molto scarsi a causa della corruzione dilagante nel paese. Per il periodo 2014-2020 l’UE ha allocato 251 milioni di euro per lo sviluppo in Tajikistan.
4. Il viaggio elettorale del 1 marzo
Ed eccoci al tema elezioni, il motivo della missione, siamo arrivati in Tajikistan consapevoli che la gran parte delle raccomandazioni dell’OSCE conseguenti alle elezioni del 2010 e delle presidenziali del 2013, erano state quasi totalmente disattese dal Governo Tajiko. Non ho esitato a ricordarglielo al numero due del Presidente Rahmon, il plenipotenziario presidente della Majlisi Oli (Parlamento Tajiko) che ricopre anche la funzione di Sindaco della capitale Dushanbe, carica di nomina governativa, le sue risposte, naturalmente, molto evasive.
La campagna elettorale, conclusa senza comizi nè effetti speciali nel momento del nostro arrivo, ha viaggiato naturalmente in senso unico, presidenziale, il cui controllo su tutti i mezzi di informazione non lascia scampo ad altra opzione, e la sensazione che si ha girando per il paese è quella di una cosciente accettazione dello stato delle cose.
Il giorno prima delle elezioni abbiamo incontrato i leader di tutti i partiti candidati alle elezioni, da una serie di partiti satellite di quelli del presidente, ad alcuni leader nostalgici della guerra fredda che sfoderavano lezioni di marxismo, leninismo, trovskismo e stalinismo (molti rimpiangono il tempo sovietico, un po’ come avevo già registrato in molti posti dei Balcani nei confronti di Tito).
In ogni seggio in cui ci fermavamo ripetevo sempre la stessa domanda agli osservatori dei partiti di opposizione (tra cui l’Islamic revival party, partito islamico molto moderato, unico legale in centro Asia), chiedevo se avessero ravvisato qualche irregolarità da denunciare o avessero qualche lamentela da porre, e la risposta era sistematicamente “No, tutto a posto, tutto regolare, perfetto”.
Eppure di irregolarità palesi, almeno per la nostra concezione di elezioni, io con i miei stessi occhi ne ho viste parecchie: da gente che imbucava una decina di schede a gente che votava fuori dalla cabina, da gente che firmava per 20 a gente che entrava in cabina a 3 a 3 passando per scatole trasparenti (in cui si vedeva chiaramente per chi avevi votato), tutte che per loro rappresentavano la assoluta normalità.
La sensazione era quella che l’idea di poter sollevare questioni davanti agli osservatori occidentali fosse assimilabile agli psico-crimini di orwelliana memoria, insomma un clima cordiale ma pesantemente intimidito.
Il viaggio verso sud è stato formativo, interessante, a tratti entusiasmante, abbiamo toccato con mano molte delle cose che avevamo studiato e discusso nei giorni precedenti, ci siamo spinti fino all’ultimo seggio elettorale prima dell’Afghanistan, in una zona sconsigliata dal protocollo ma in cui valeva la pena andare, un’area di una povertà economica assoluta ma di una ricchezza d’animo che ti fa pensare. Abbiamo forzato un pò l’itinerario previsto, se vedevamo nella mappa un posto particolarmente tortuoso o difficile da raggiungere, lo sceglievamo come meta successiva, ed in questo devo dire che entrambi i miei compagni di missione sono stati più che coraggiosi.
A Sarmantay, sul fiume Pani, a confine con l’Afghanistan, c’era una piccola scuola dove si votava, dentro, in un presidio medico c’era un giovane dottore con tutta l’attrezzatura a sua disposizione, che era di gran lungo inferiore alla cassetta medica che ci eravamo portati dietro noi, più tardi ci siamo pentiti di non aver pensato di lasciargli la nostra cassetta medica, in compenso abbiamo lasciato le nostre penne, matite e colori ai bambini del villaggio che giocavano a pallone.
I sorrisi ed i gesti delle persone incontrate lungo il cammino erano gesti e sorrisi sinceri, erano i gesti di chi vuole darti quello che non ha, una ospitalità meravigliosa in una zona dove i nostri rifiuti e ciò che noi consideriamo più disastrato sarebbero un autentico lusso.
Mi hanno fatto entrare dentro una abitazione per andare in bagno, la piccolissima scuola dove si votava non ne aveva, credo di non aver mai visto situazioni igieniche di quel tipo, neanche nei posti più estremi dove ero stato finora, eppure quella ospitalità, quel sorriso, quei movimenti delle mani, ti indicavano che ti stavano mettendo a disposizione, con grande gentilezza e umiltà, tutto quello che avevano.
In Tajikistan davanti ad ogni seggio elettorale c’era una sorta di clima di festa, con delle grandi casse piazzate all’esterno delle strutture (quasi sempre si trattava di delle scuole) che pompavano dell’orecchiabile musica locale per richiamare gli elettori, i cittadini, ad esercitare il loro dovere. Alta, molto alta l’affluenza ai seggi, specialmente durante la mattina, tutti in fila davanti alle scuole per andare a votare. Anche nei villaggi senza strade, con il migliore abito a loro disposizione, i cittadini tajiki sono andati ad esercitare il loro diritto di voto con il sorriso, e con l’abito buono del sabato del villaggio.