di Monia Benini – Pensiero Libero – La “rivoluzionaria” Islanda va avanti…
Come forse è risaputo, quasi tutti i membri della grande finanza che erano alla testa delle potenti banche statunitensi che nel 2008 sono stati protagonisti dell’esplosione (e del contagio) della crisi sono a piede libero e con i loro conti ben nutriti. A quel tempo, Ben Bernanke, il dominus della Federal Reserve, focalizzava la sua attenzione sulle violazioni commesse in generale dalle corporation bancarie, invece di spingere per perseguire gli illeciti e i crimini commessi dagli individui che erano i reali burattinai del sistema all’interno delle banche. Il risultato è ben evidente: i procedimenti penali verso le corporations sono diminuiti del 29% fra il 2004 e il 2014.
Nonostante il suo ridotto numero di abitanti (330.000), c’è invece uno Stato che sta mostrando all’America e all’Europa come si fa a mandare in galera i banchieri disonesti. In Islanda, dall’inizio della crisi finanziaria globale, sono stati condannati in via definitiva ben 26 banchieri per un totale di 74 anni di carcere, mentre negli States (dove la popolazione e i gruppi bancari e finanziari sono molto più numerosi) le condanne per i crimini commessi dai colletti bianchi ammontano ad appena 54 anni in totale.
Qualcuno potrebbe affermare che la comparazione dell’Islanda con gli Stati Uniti non regge, poiché sono così diverse dal punto di vista della popolazione e dell’economia, ma il collasso del sistema finanziario islandese è stato di una tale portata da poter essere assimilato al fallimento di 300 Lehman Brothers negli USA. Basti pensare che le tre banche islandesi principali erano valutate 14 volte il PIL nazionale. Magnús Sveinn Helgason, un economista storico dell’Università di Bifröst, ha recentemente dichiarato: “I banchieri erano come rock star; erano eroi. Negli anni precedenti al tracollo, erano chiamati Vichinghi aziendali. C’è però stato un momento in cui le banche sono diventate troppo grandi per fallire, mentre in Islanda erano troppo grandi per essere salvate”.
Il blog Thinkprogress.org ha descritto con precisione cosa è accaduto:
“Quando l’Islanda ha scelto di lasciar fallire le proprie banche e cercare al contempo un salvataggio da parte del Fondo Monetario Internazionale, sembrò un disastro”. Ma l’Islanda, con la sua moneta e con la sua autonomia “ritornò a crescere dal punto di vista economico molto più velocemente di quanto si attendessero gli scettici con l’atteggiamento inflessibile verso gli attori dell’industria finanziaria, mentre gli altri Paesi ormai nella scia del collasso globale si approcciavano con loro in maniera conciliatoria. Il tasso di crescita della piccola economia islandese sorpassò la media dei Paesi europei già nel 2012. Il tasso di disoccupazione dimezzò rispetto al momento di picco della crisi. Come gli alti Stati con una forte presenza dell’industria finanziaria, anche l’Islanda investì molto denaro nella ripresa, ma salvò quotidianamente i cittadini anziché i banchieri, cancellando i debiti per ipoteche che superavano il 110% del valore reale delle abitazioni per le quali avevano acceso un mutuo. Le banche, che brulicavano nell’isola nord Atlantica dopo l’aggressiva deregulation della finanza Islandese, furono lasciate fallire e andare in bancarotta.”
Quella ormai nota come “rivoluzione islandese” ha avuto inizio sette anni fa, l’11 ottobre del 2008, quando Hörður Torfason, un noto direttore teatrale, attore e cantautore, si mise ogni giorno, per una settimana, davanti al Parlamento di Reykjavik a chiedere e a discutere del collasso finanziario con chiunque, indifferente o sfiduciato che fosse, passasse nei paraggi. Il 18 ottobre Torfason organizzò una protesta pacifica che si trasformò in una manifestazione con cadenza settimanale per i successivi cinque mesi, durante i quali i cittadini islandesi furono capaci di costringere alle dimissioni il Governo, il Consiglio dell’Autorità di Supervisione Monetaria e il vertice della Banca Centrale.
E oggi, cosa ne pensa, il padre della “rivoluzione islandese”? “La mia esperienza di attivista mi ha insegnato che i cambiamenti sociali richiedono tempo. Il mio scopo resta sempre quello di creare consapevolezza e continuo a lavorare con l’idea della società nella quale mi piacerebbe vivere”, spiega Torfason. “Molti Islandesi pensano che non sia cambiato nulla. Ma immaginatevi se non avessero avuto luogo le protste; in quel caso non sarebbe realmente cambiato nulla. Noi siamo insorti in risposta a una situazione terribile, risvegliandoci da un incubo che abbiamo tutti vissuto. Viviamo in una società di cieco egoismo e disonestà, lasciando indietro migliaia di famiglie e individui finanziariamente rovinati.
A distanza di sette anni ci sono ancora ombre minacciose, ma discutiamo di politica come non era mai avvenuto e la maggior parte dei cittadini ora sembra finalmente avere perso ogni fiducia nel vecchio sistema politico. L’incarcerazione dei banchieri è una delle risposte ai nostri problemi ed è un passo nella giusta direzione. Tutti i maggiori cambiamenti degli ultimi tempi sono avvenuti grazie allo stimolo dei cittadini. Abbiamo persino una nuova Costituzione scritta dalla gente per la gente, ma è stata bloccata dai membri del Parlamento. Nonostante ciò, pensiamo che nel giro di pochi anni riusciremo a farla entrare in vigore.
La “rivoluzione” non è certo conclusa. Non abbiamo smarrito il nostro obiettivo. Siamo determinati ad andare fino in fondo e lo faremo pacificamente. Sappiamo che occorrerà tempo e il tempo è dalla nostra parte se noi avremo la costanza di lavorare nel tempo.
Le cause contro i banchieri e i manovratori della grande finanza continueranno negli anni a venire e i partiti politici responsabili di quanto accaduto saranno puniti attraverso la mancanza di sostegno da parte dei cittadini.”