I posti nella stanza dei bottoni sono pronti. Stanno per accogliere i rappresentanti dei 162 Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) a distanza di vent’anni dalla creazione di questa struttura. Per la prima volta la conferenza ministeriale si tiene in Africa (a Nairobi) ed è quindi normale che ci siano molte attese attorno a questo evento, soprattutto per quanto riguarda gli Stati con le economie meno avanzate.
Tuttavia, il Direttore Generale della WTO ha dichiarato qualche giorno fa che: “Nonostante gli sforzi intensi profusi in ogni ambito principale della Doha Development Agenda sui negoziati per il commercio globale, iniziati nel 2001, sono stati compiuti pochi progressi. La distanza fra le posizioni dei partecipanti resta enorme. Questo significa che non siamo stati capaci di procedere in molti aspetti dell’agenda di Doha come ad esempio il sostegno all’agricoltura o ogni aspetto dell’accesso ai mercati agricoli, non-agricoli o dei servizi.”.
A complicare il quadro, si aggiunge il fatto che oltre due dozzine di ministri non hanno intenzione di partecipare all’incontro di Nairobi, e che quanti invece saranno presenti, avranno a che fare con un documento caotico poiché i negoziatori, che hanno sinora lavorato a Ginevra, non sono riusciti a raggiungere un accordo sulla bozza di dichiarazione che dovrà essere emessa alla fine della Conferenza.
L’appuntamento di Nairobi rischia quindi di essere una passerella politica, mentre le grandi manovre sono compiute in parallelo al WTO, con gli USA, l’Unione Europea, l’Australia, la Nuova Zelanda e altri Paesi che hanno concluso o stanno negoziando accordi di libero scambio come il TPP e il TTIP.
Sarebbe però sbagliato pensare che questa Conferenza del WTO si risolva in una bolla di sapone: il vero nodo infatti potrebbe essere il Trade Facilitation Agreement (TFA), un compromesso per intervenire sulle procedure doganali dei beni provenienti dai Paesi meno sviluppati, che secondo quanto affermato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, incrementerebbe le esportazioni di merci di 1 trilione di dollari l’anno. Perché l’accordo si realizzi, serve però l’assenso dei due terzi dei membri del WTO. La partita sembra interessare anche i big in campo, perché sulla base dei dati forniti dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, il TFA produrrebbe un taglio globale dei costi del 17,5 % incrementando gli scambi su scala globale.
Non è dato sapere se l’appuntamento di Nairobi sarà utile per svelare quanto effettivamente si nasconde dietro la sigla del TFA ma quel che è certo, è che qualora non ci dovessero essere risultati soddisfacenti per i maggiori attori mondiali, ci penserà la shock economy a regolare (o meglio… a deregolamentare) la situazione.
Come ben spiegato da Naomi Klein nel suo libro, gli shock provocati da un evento contingente, provocato per raggiungere lo scopo, oppure generati da incapacità politiche o da cause esterne, possono permettere di rendere necessario ciò che era prima inaccettabile, senza il consenso popolare.
E l’Italia, con il terzo governo non eletto dal popolo, ne è una triste dimostrazione: privatizzazioni, tagli, disoccupazione, chiusura delle aziende, fallimento di 4 banche e generale impoverimento di larga parte della popolazione sono amarissimi dati di fatto.