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Carbone in cambio di vite. La sete della Guajira colombiana

Una privatizzazione quantomeno discutibile di terre abitate da secoli da gente che vive soltanto delle sue risorse, ma che sta inesorabilmente morendo di fame, sete e malattie perché adesso le loro risorse servono a una miniera di carbone.

Pensate di svegliarvi una mattina e rendervi conto che la casa in cui vivete non è più vostra, l’accesso all’acqua potabile non vi è più garantito e non siete neanche più autorizzati a rimanere nella vostra terra perché adesso appartiene a qualcun altro. Tutto naturalmente senza il vostro consenso.

Questa è la triste sorte che tocca al popolo Wayúu, il più grande gruppo indigeno del Venezuela e della Colombia; gli appartenenti a questa comunità si concentrano principalmente nella penisola semideserta della Guajira, situata nella regione del Caribe nell’estremo nord-est della Colombia al confine col Venezuela.

A differenza del resto della Colombia, La Guajira è una regione secca e arida in cui l’acqua scarseggia da sempre, ma è allo stesso tempo ricchissima di risorse naturali come carbone e gas naturale.

Sebbene non conosciuta quanto Cartagena de Indias o la zona cafetera del Quindío, La Guajira nasconde grandi bellezze naturali e soprattutto una ricca cultura indigena, in gran parte costituita proprio dal popolo Wayúu.

Le persone di questa comunità, tra le più povere ed emarginate del pianeta, sono costrette ad affrontare una terribile condizione di fame, sete, malnutrizione ed esposizione ad agenti altamente inquinanti da oltre un decennio ormai.

La principale responsabilità di questa gravissima e protratta emergenza umanitaria sembra fare capo a un unico attore: l`impresa Carbones de Cerrejon. Si tratta della miniera di carbone a cielo aperto più grande dell’America Latina (decima su scala mondiale), detenuta in parti uguali da colossi del settore minerario del calibro di BHP Billiton, Anglo American e Xstrata.

Con un volume medio di esportazioni di oltre 32 milioni di tonnellate di carbone l’anno, questa società mineraria si attesta come il principale fornitore di carbone dell’Unione Europea (il 60% delle esportazioni è infatti destinato agli Stati membri).

Una delle cause principali dell`emergenza della Guajira sta nel fatto che il fiume Ranchería, la principale fonte d’acqua dolce che garantisce la sopravvivenza di tutta la regione, viene in buona parte utilizzato per l`approvvigionamento della miniera di carbone.

Per dare un’idea dell’impatto sociale e ambientale sulla popolazione conseguente allo sfruttamento delle risorse da parte della suddetta compagnia basti pensare che, secondo l`organizzazione ambientalista colombiana CENSAT Agua Viva, a fronte del consumo medio giornaliero di acqua di un abitante della Guajira di 0,7 litri, Cerrejon pare ne utilizzi circa 17 milioni di litri al giorno. Acqua di fatto letteralmente sottratta a tutto il resto della Guajira e dalla quale dipendeva (e dipende) l’approvvigionamento di tutte le comunità della regione.

Ma i presunti abusi connessi alla compagnia purtroppo non si limitano soltanto a questo e comprendono anche un forte inquinamento ambientale imputato alle emissioni prodotte dalla miniera. Secondo il quotidiano colombiano El Espectador, nel 2014 la sola provincia di Barrancas ha registrato un totale di 2.526 visite e casi di emergenza relativi a infezioni respiratorie acute, il 48% di tutte le emergenze ospedaliere dell’intero anno.

A farne le spese in questo contesto di assoluta emergenza sono soprattutto i bambini, con un tasso di mortalità altissimo (almeno 4900 bambini Wayúu sono morti negli ultimi 10 anni per cause legate a malnutrizione, mancanza di acqua e malattie curabili, anche se secondo i Wayúu la cifra si aggira intorno ai 14.000).

Quanto detto sarebbe già sufficiente per comprendere la drammaticità della situazione, ma purtroppo pare siano ricollegabili alla compagnia altri presunti abusi.

Molte comunità locali hanno dovuto infatti subire la cosiddetta pratica del land grabbing, ovvero l`esproprio della loro terra ancestrale e la conseguente rimozione forzata (secondo la ONG danese DanWatch i casi più gravi e numerosi di violazioni dei diritti umani sono stati registrati proprio in seguito a questa pratica).

La Corte Costituzionale colombiana si è espressa in favore delle rimostranze avanzate dalle comunità indigene e ha obbligato Cerrejòn a tener fede all’obbligo di previa consultazione in caso di esproprio dei terreni, diritto fondamentale di tutte le comunità indigene prima della eventuale rimozione dai loro territori e l’assegnazione di nuove terre (obbligo di compensazione). Quello che però denunciano diverse famiglie è il fatto che, sebbene l’obbligo di compensazione sia stato effettivamente rispettato, le nuove terre assegnate per la coltivazione nella maggior parte dei casi si trovano in zone totalmente aride, rendendo eccessivamente gravoso, se non impossibile, lo svolgimento di qualsiasi tipo di attività produttiva, senza menzionare le case spesso non ultimate e con gravi carenze di servizi fondamentali.

Queste nuove terre non raggiungerebbero quindi neanche lontanamente i requisiti di “miglioramento della qualità della vita” promessi dalla Cerrejón ai gruppi indigeni coinvolti.

La compagnia, come riportato dal quotidiano inglese The Guardian, sarebbe stata accusata di gravi danni all’ambiente, collusione politica e violazione dei diritti umani (specialmente contro la popolazione Wayùu), ma a queste denunce non avrebbero fatto seguito delle azioni concrete ed efficaci per porre fine a questi abusi che stanno portando a una inesorabile estinzione di una intera comunità indigena.

E’ per tutti questi motivi che ho fatto un’interrogazione parlamentare, chiedendo spiegazioni alla Commissione Europea circa le indagini e i metodi di sorveglianza in relazione alle denunce e alle attività della Cerrejon legate all’Europa, oltre al coinvolgimento di imprese e istituzioni europee nei relativi scambi commerciali.

Purtroppo la risposta della Vicepresidente Federica Mogherini non ha fornito alcuna chiarificazione riguardo a un miglioramento concreto della situazione ma solo riferimenti alla creazione e agevolazione da parte dell’Unione di un dialogo tra le organizzazioni della società civile colombiana e il governo, oltre che un mantenimento dei contatti dell’UE con sindacati e organizzazioni ambientali.

E non è certo sufficiente lo stanziamento di 553.000 di euro (progetto finanziato dall’UE tra il 2013 e il 2015 per l’emancipazione delle donne Wayùu) per far fronte a una crisi umanitaria di questa portata.

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