Il gas non è verde e l’imponente stanziamento di fondi e pressioni messo in atto dalle lobby del gas non fa presumere niente di buono all’orizzonte visti gli ambiziosi obiettivi fissati dalla nuova legge del clima.
Dalla Norvegia alla Germania, dalla Romania alla Grecia, si moltiplicano i finanziamenti per i progetti di nuove strutture di gas.
Stiamo per spendere 104 miliardi di euro in nuovi progetti di gas fossile, per costruire 12.842 km di nuovi tubi, un aumento del 54% di impianti di gas liquido e del 22% di centrali a gas fossile classiche, con una spesa di 29 miliardi di euro. Ma perché tutto questo spreco di denaro pubblico per un’energia fossile, che libera nell’atmosfera il metano, 86 volte più nocivo del CO2? E poi, perché costruire nuovi impianti se, come ci dice Eurostat, l’Europa consuma solo la metà del gas che potrebbe già importare e addirittura il 20% del gas liquido a disposizione? Persino la Commissione europea, dal 2018 scrive che il consumo di gas naturale diminuirà del 21% entro il 2030 e addirittura del 85% nel 2050. Che senso ha investire in nuovi impianti che hanno una durata di vita di almeno 20-25 anni, quando gli scienziati ci dicono che dobbiamo smettere di estrarre energie fossili per evitare di riscaldare il pianeta di oltre 1,5 gradi? Mentre i nostri governi continuano a parlare di emergenza climatica, il gas viene presentato come l’energia del futuro che ci porterà verso un’economia a zero emissioni.
Il problema viene da lontano come ben spiegato dall’articolo del fatto quotidiano, un mix tra lobby, politica, progetti molto spesso costosi e inutili e contratti miliardari. Nel 2009 venne creata EntsoG, una lobby presente a Bruxelles in un elegante palazzo del quartiere europeo, regolarmente iscritta nel registro delle lobby che rappresenta le più grandi multinazionali europee del settore, il cui compito è, secondo il regolamento TEN-E (che serve a decidere quali progetti inserire e finanziare in Europa) fornire scenari sulla domanda di gas in Europa.
Sebbene il gas da fossile é una realta che stiamo utilizzando anche lui deve andare in “phase out” quanto prima. Verificando i dati, infatti, non è logico e tantomeno onesto pensare di continuare a finanziare il gas in futuro, a maggior ragione con nuove imponenti e costose strutture che toglierebbero ingenti risorse alle rinnovabili.
A breve l’idrogeno sarà il nuovo eldorado della lobby del gas con l’obiettivo di attingere ai soldi del Recovery Fund, ma anche li assistiamo ad una grande lotta tra il cosiddetto idrogeno verde (prodotto per elettrolisi dell’acqua a partire da energie rinnovabili) che diventa più economico grazie agli enormi progressi a cui assistiamo nell’eolico e nel fotovoltaico, e l’idrogeno blu quello su ci si vorrebbe purtroppo investire di più , ottenuto da composti del carbonio (fossili o biomasse), a cui viene tuttavia accostata la pratica del Carbon Capture and Storage (CCS), ossia lo stoccaggio della CO2 prodotta in depositi sotterranei (coincidenti con vecchi depositi di metano ormai esausti.)
Qui una disamina su chi volesse approfondire il soggetto:
Innanzitutto va detto che è possibile ottenere idrogeno in tre modi:
- Idrogeno grigio: prodotto dalla conversione termochimica del gas naturale, ma con forti emissioni di CO2.
- Idrogeno blu: simile a quello grigio, ma con l’aggiunta della cattura e stoccaggio sottoterra della CO2, il cosiddetto “storage CCS”.
- Idrogeno green: attraverso l’elettrolisi dell’acqua, viene usata energia elettrica (proveniente da fonti rinnovabili, come eolico e solare) per “scomporre” l’acqua in idrogeno e ossigeno, senza emissioni di CO2.
Questa distinzione è importante perché, secondo un rapporto stilato dagli analisti di Wood Mackenzie, l’attuale produzione di idrogeno si basa quasi interamente (99%) sulle fonti fossili, con forti emissioni di CO2. A quanto pare, ad oggi, l’idrogeno green, l’unico che potrebbe davvero contribuire in modo significativo alla decarbonizzazione e alla lotta al riscaldamento globale, non è molto profittevole per le grandi multinazionali dell’energia a causa dei suoi elevati costi di produzione. Tutti gli studi concordano sul fatto che ci vorrà parecchio tempo prima che l’adozione di elettrolizzatori su vasta scala contribuisca alla riduzione dei loro costi, rendendo così la produzione di idrogeno verde competitiva secondo i parametri di mercato.
I più ottimisti parlano di una decina d’anni. Stando ad una recente ricerca di Bloomberg New Energy Finance, i costi di produzione dell’idrogeno green potranno scendere del 70% nei prossimi dieci anni, rendendo l’opzione green del tutto competitiva rispetto alle altre soluzioni. In base ad un report di Snam e McKinsey, il costo dell’idrogeno green sarà competitivo entro il 2030, una previsione valida però solo per l’Italia, dove – grazie alla maggior presenza di energia rinnovabile, di una rete capillare per il trasporto di gas e dei collegamenti con il Nord Africa – sarà possibile raggiungere il punto di pareggio con quello grigio 5-10 anni prima rispetto ad altri paesi, tra cui la Germania. Altri studi invece sono più pessimisti e spostano l’orizzonte della profittabilità dell’idrogeno green a tra 20-30 anni. Secondo una stima di Bloomberg New Energy Finance, solo nel 2050 il costo scenderà intorno a 1 dollaro al kg contro i 5 attuali.
Dunque anche prendendo per buone queste valutazioni, che sono tutte da verificare, le attuali soluzioni basate sull’idrogeno prevedono inevitabilmente un lungo periodo di “transizione” di dieci, venti o trent’anni, durante il quale – in attesa che le multinazionali possano iniziare a fare profitti anche con l’idrogeno verde – giocoforza si dovrà continuare ad utilizzare massicciamente le fonti di energia fossili.
Voi che ne pensate?