Da un paio di giorni questa fotografia mi sta facendo riflettere. È un’istantanea che ritrae l’enorme portacontainer, la nave Ever Given, un colosso da 220 mila tonnellate, lungo 400 metri e larga 59, che si è insabbiata lo scorso 23 marzo nel canale di Suez. Si tratta di una nave giapponese battente bandiera panamense. È l’ennesimo fatto di cronaca che fa emergere – ancora una volta – come alla fine siano tanto fragili i sistemi che regolano il mondo.
Pensate al danno economico che sta generando una sola naveincagliata in uno snodo centrale per le comunicazioni internazionali: perdite stimate in oltre 9 miliardi di dollari al giorno; un blocco di oltre 30 mega navi portacontainer; sta generando un ingorgo di oltre 300 navi cargo, che verrà smaltito solo dopo diversi giorni dallo sblocco del canale; ha fatto aumentare del 70% i costi di trasporto dai porti del Mar Nero verso Francia e Italia.
Dunque, il miliardario sistema creato dalle multinazionali e dal mercato si è dimostrato un gigante “dai piedi d’argilla”. Una sola nave bloccata rischia di ripercuotersi velocemente sulle tasche dei cittadini di mezzo mondo per beni primari come la benzina ed altre merci che vanno dalle componenti informatiche fino ai prodotti alimentari. Ma non solo, sembra che si stia preparando la “tempesta perfetta”. Vi sono altre enormi problematiche economiche legate al costo delle navi, delle merci, dell’affitto giornaliero dei container, delle mancate entrate da parte delle autorità che gestiscono il Canale di Suez e dei porti mondiali coinvolti nel mancato arrivo della navi. A queste spese possiamo aggiungere gli eventuali ricorsi che potrebbero arrivare dagli armatori delle navi bloccate, dai destinatari finali delle forniture bloccate sulle navi, che comprendono sia le fabbriche che necessitano di materie prime che i negozi che devono riempire gli scaffali. Ma non solo, vi è anche una questione ambientale che non dobbiamo sottovalutare. Sono oltre 20 le navi con bestiame a bordo: se il blocco dovesse protrarsi il “benessere” degli animali potrebbe venire a mancare a causa della scarsa disponibilità a bordo di acqua e cibo, con complicazioni per lo smaltimento dei rifiuti generati dagli stessi animali. Sarebbe ancor più complicato – quasi impossibile – far sbarcare il bestiame in attesa della ripartenza ed in caso di decesso di qualche capo lo smaltimento delle carcasse sarebbe problematico.
Ecco una parte del rischio che i mercati stanno correndo in queste ore,perché il Canale di Suez rappresenta la rotta commerciale privilegiata per collegare l’Asia all’Occidente, dal quale transita il 12% del traffico merci di tutto il mondo ed il 40% dell’import-export italiano.
Recentemente è bastato un virus invisibile per metterci sotto scacco – una tragica esperienza che stiamo ancora vivendo – ed oggi tocca aduna nave insabbiata partecipare al dramma, rompendo troppo facilmente la catena di approvvigionamento quotidiano di una parte del mercato mondiale.
Quella piccola ruspa diventa dunque un simbolo. Potrebbe rappresentare le armi spuntate che abbiamo a nostra disposizione per creare un mondo più sostenibile, che porti in risalto la mobilità da fonti energetiche sostenibili, che promuova le attività di resilienza nei nostri centri storici, le attività produttive di prossimità e a km 0, che ci abitui a consumare meglio incentivando la manutenzione dei beni chegià abbiamo a nostra disposizione, che preveda cicli produttivi che abbiano rispetto per le persone, del diritto al lavoro e per il territorio. Oggi la green economy, l’economia circolare o la bioeconomia sono capaci di generare lavoro nel pieno rispetto del mondo che ci circonda.
Che questo ennesimo evento possa almeno essere d’esempio, per ricalibrare il nostro futuro, più attento al locale e che le risorse del Recovery Fund siano il turbo per il vero sviluppo di queste tematiche che guardano con maggiore entusiasmo al prossimo futuro.